Chi erano i Mods?
Viaggio all’interno di uno dei più significativi fenomeni culturali del dopoguerra
21 Aprile 2019
Lambretta, Parka, taglio di capelli new french line e logo della Royal Air Force. Con una simbologia così variegata e distintiva, è stato semplice entrare nell’immaginario collettivo che ha contribuito a identificare iconograficamente la generazione dei Mods. Eppure, al di là dell’emblematica riconoscibilità e del simbolismo quasi caricaturale, i Mods sono stati molto più di tutto questo. Non un semplice movimento, non una semplice corrente, ma la prima vera sottocultura del dopoguerra, capace di affondare le proprie radici nei più disparati ambiti artistici e culturali, dando origine nel corso dei decenni a numerose subcultures strettamente connesse al fenomeno Mod.
I Mods nascono nella seconda metà degli anni ‘50 in un Inghilterra che aveva da poco assistito in diretta tv all’incoronazione della Regina Elisabetta II e che per la prima volta dopo la guerra stava intravedendo un benessere economico fino a quel momento sconosciuto. Mod è di fatto l’abbreviazione di Modernist, a sua volta derivante dal genere musicale privilegiato tra gli early Mods: il Modern Jazz, di larghissima diffusione nei locali londinesi di Soho di fine anni ‘50 e primo vero tratto distintivo dell’originale formazione sottoculturale. Ma l’essere un Mod non significava solamente percepire un’identità collettiva attorno a un genere musicale, perché lo sviluppo delle prime aggregazioni ruotava intorno a uno scopo ben preciso, che prevedeva l’esplicita volontà di distaccarsi dal modo in cui viveva la generazione precedente, dei padri e delle madri che faticavano anche solo a realizzare la portata del boom economico sviluppatosi nel dopoguerra.
Quale era il look degli Early Mods?
Prendere le distanze, quindi, assumendo un approccio differente nella quotidianità, attraverso l’individuazione di uno stile altamente distintivo. E come farlo, se non andando ad abbattere il tradizionalismo delle generazioni precedenti? Ecco che allora i primi Mods attingono a piene mani dall’italian style, ricercando quindi completi finemente elaborati ed eleganti, in netta contrapposizione con lo stile adottato da genitori e coetanei. Abiti di sartoria dalle stoffe di grammature leggere, look pulito, asciutto e vistoso, con il quale potersi mettere in mostra nei frequentissimi raduni a bordo di Vespe e Lambrette addobbate con miriadi di luci, specchietti e accessori, che avevano il semplice scopo di richiamare l’attenzione e di rendere il gruppo volutamente appariscente al suo passaggio per le vie londinesi. Trarre spunti dal look italiano significava sposare l’eleganza distintiva di uno stile globalmente riconosciuto e apprezzato. Dal vestiario agli accessori, passando per i mezzi di locomozione. I tratti unici dello scooter italiano hanno fornito ai Mods uno strumento esclusivo per accrescere il loro grado di riconoscibilità. Il Times, dopo l’immissione della Vespa sul mercato, parlò di “un prodotto interamente italiano come non se ne vedevano da secoli dopo la biga romana”. Ed è proprio questa unanime approvazione che ha portato i primi Mods a farne un vero e proprio manifesto del movimento, legandolo ancora di più alla tipicità dello stile italiano nel dopoguerra. Nel romanzo di Colin MacInnes "Absolute Beginners" - considerato il primo vero riferimento della sottocultura - viene fatta un’accurata descrizione del look del protagonista Dean Swift, andando contestualmente a collocare dei parametri estetici e stilistici che coincidono a grandi linee con quelli della generazione mod:
"Capelli lisci tagliati corti orientati di lato, camicia bianca round-collared di fattura italiana, giacche su misura a tre bottoni, pantaloni dagli orli molto stretti e corti al collo del piede, scarpe a punta e mac bianco".
La distinzione con “gli altri” e il resto del mondo ha creato attorno agli giovani mod un sistema profondamente elitario ed esclusivo, che tuttavia non ha innalzato barriere sociali che potessero favorire lo sviluppo del gruppo in un’ottica prettamente classista. Un sistema così stigmatizzato da portare alla creazione di contrapposizioni dicotomiche sfociate spesso in vere faide, come quella con i Rockers, sottocultura apertamente antagonista dei Mods, sia dal punto di vista stilistico ed estetico (giacche di pelle e maglietta bianca, stivaletti, capelli ingellati e tirati indietro ai lati, iconiche motociclette al posto delle lambrette), sia da quello musicale (molto più legati al rockabilly e al rock ‘n’ roll).
Nonostante l’iniziale abitudine di vestire abiti firmati, l’origine sociale – anche se, come detto, il fenomeno è stato generalmente trasversale – era molto più vicina alla working class, come ben testimonia la dichiarata volontà di cambiamento a livello estetico e l’esplicito proposito di migliorare la propria collocazione all’interno della società. È proprio questa necessità di voltare pagina che ha portato alla formazione di questa sottocultura, nella continua ricerca al perfezionamento del proprio stile e del proprio modo di vivere.
L’evoluzione dei Mods negli anni ‘60
Nel giro di poco tempo prendono una piega differente anche alcuni dei tratti distintivi che ne avevano contraddistinto la formazione iniziale. A partire proprio dal look, con una lieve virata verso uno stile più casual e pratico rispetto a quello degli early Mods. La scelta delle calzature ricadeva generalmente sulle classiche desert boot (in stile Clark’s) o in alternativa sui mocassini con frange con le nappe. Ma il vero simbolo del perfezionamento stilistico dei Mods risiede nell’adozione generalizzata di un indumento che ha poco da spartire con la moda britannica e con la street culture londinese. Così stilisticamente (e geograficamente) lontano, così estremamente pratico per affrontare le rigide temperature d’oltremanica, il Parka “a coda di rondine” diviene paradossalmente simbolo per eccellenza dello stile Mod. Preso “in prestito” dai soldati americani durante la guerra di Corea dei primi anni ‘50, il Parka M51 entra a far parte del guardaroba dell’aggregazione subculturale, diventando presto tratto distintivo di un’intera generazione. A completare il quadro dell’iconico look, rimangono poi giacche a tre bottoni e Polo a mezze maniche.
Il successo imprenditoriale di Fred Perry in questi termini si deve in buona parte proprio all’enorme seguito che le sue polo ebbero tra i Mods, divenuti involontari testimonial del capo d’abbigliamento creato nel 1952 dall’ex tennista inglese. Con il suo tipico colletto a doppia riga e la sua tradizionale Laurel Wreath, la corona d’alloro, la Polo Fred Perry è divenuta un vero e proprio simbolo dell’uniforme subculturale britannica. Oltre al parka, era poi enormemente diffusa la mitica G9 di Baracauta, meglio conosciuta come Harrington Jacket, divenuta nel tempo famosa per essere stata indossata da icone come Elvis Preseley o, più avanti, Joe Strummer, e ampiamente di uso comune nella generazione Mod e nelle subcultures successive.
Oltre che a livello stilistico, nei primi anni ‘60 le cose cominciano a cambiare anche dal punto di vista musicale, con il modern jazz originario che viene affiancato da numerosi generi quali reggae, rhythm ‘n’ blues e ska, spesso divenuti accessibili e di ascolto generalizzato grazie all’influenza degli immigrati delle ex colonie delle Antille. Il fenomeno Mod entra quindi a stretto contatto con la musica britannica, condizionando numerose band che finiscono col diventarne vere icone e rappresentazioni artistiche della sottocultura stessa. Su tutti, tra le più celebri, gli Small Faces (esempio stilistico per eccellenza degli early mods), gli Who, i Kinks, gli Yardbirds e i Creation, ma anche i Rolling Stones e i Beatles, benché in realtà il quartetto di Liverpool non fosse di larghissima diffusione tra i Mods. Complice proprio la crescita esponenziale del fenomeno, i Mods originari cominciarono a distaccarsi apertamente dalla forte commercializzazione che aveva invaso la sottocultura. Sul tema scriveva così Antonio Bacciocchi, in un articolo pubblicato su Alias nel 2006 <<La cosa, assolutamente antitetica al concetto originale, mise in fuga i Mods originali che rinnegarono l’evoluzione in atto>>.
I Mods negli anni ‘70
Complice anche l’omologazione e commercializzazione di molte culture e sottoculture del tempo, si comincia a sentire il bisogno di ritrovare uno stile più genuino ed essenziale a cui far riferimento. A dare voce a questo sentimento condiviso sono su tutti proprio gli Who, precursori del movimento. Nel 1973 esce il loro sesto album intitolato “Quadrophenia”, che diviene involontariamente emblema del revival in corso perché narrava la storia e le vicissitudini di Jimmy, mod disilluso e rassegnato nel vedere la sua vita sfuggire a ogni parvenza di successo personale. Il fenomeno Mod quindi cresce e riprende smalto in maniera quasi inaspettata, tanto da lasciare un segno non indifferente nella cultura britannica. Altri grandi artisti che ri-abbracciarono lo stile Mod in tutte le sue sfaccettature, sono i Jam di Paul Weller (soprannominato, non certo a caso, “The Modfather”), vere icone del revival dei primi anni ‘70. A partire proprio dal look, asciutto e molto elegante, caratterizzato da completi abbinati con cravatte sottili, con il chiaro intento di tendere la mano allo stile dei primi Mod. Tornano in voga i parka e loghi della R.A.F., ma soprattutto il taglio di capelli new french line, a simboleggiare perfettamente la volontà di tornare alle origini. Nella loro periodo di attività comunque limitato, i Jam ripresero numerosi elementi tipici del primo periodo Mod contribuendo a riportarlo ai vertici dell’interesse stilistico e culturale del tempo.
I'm still a mod, I'll always be a mod, you can bury me a mod (Paul Weller)
Dai Mods al Punk attraverso lo stile
Il graduale distacco da questa trasformazione, condusse a una contestuale dissipazione del fenomeno stesso, che sul finire degli anni ‘60 scomparve quasi definitivamente, sopravvivendo solo all’interno di altre formazioni sottoculturali. Verso la fine del decennio nascono così diverse correnti in cui molti Mods ed ex-Mods confluiscono, dando vita a vere e proprie sottoculture strettamente connesse. A cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 acquisiscono sempre più uno status identitario gli Skinheads, che prendono forma intorno alla corrente più radicale dei Mods, gli hard Mods. Con un look stigmatizzato e deciso, gli Skinheads si distaccano drasticamente dalla sottocultura “madre”, a partire proprio dalle scelte stilistiche adottate a cavallo del decennio. A discapito di abiti firmati, parka e Clark’s, riscuotono grande consenso stivaletti neri Dr.Martens - simbolo della working class londinese -, bomber MA-1, bretelle e Levi’s Red Tag o 501. Anche se la vera presa di posizione nei confronti dei Mods, rimane il taglio di capelli: tratto distintivo è proprio la testa rasata, in aperto contrasto con il taglio dei primi Mods. Buona parte del look skinhead deriva poi dai Jamaican Rude Boys, sottocultura giamaicana che condizionò profondamente la nascita e lo stile degli Skinheads. È proprio dai Rude Boys che gli Skinheads ereditano le già citate bretelle e la coppola, in uso soprattutto tra le formazioni originali. Molti skin intorno alla metà degli anni ‘70 confluiscono nell’altra formazione subculturale che comincia a prendere piede in Inghilterra sull’influenza statunitense. Bretelle, Dr. Martens e jeans rimangono anche con l’avvento del fenomeno Punk, che a livello stilistico scava proprio nell’identitario look degli skinhead.
Di derivazione mod sono anche i Casuals, sottocultura che prende forma in un contesto molto più calcistico che musicale. I Casuals nascono proprio per distaccarsi in maniera antipodica dal look “aggressivo” degli Skinhead, indossando tracksuit di marca - da Adidas a Fila, passando per Ellesse, Kappa e Sergio Tacchini - per potersi in qualche modo confondersi tra la folla negli stadi e passare inosservati allo sguardo severo dei bobbies perennemente alla ricerca di arginare il fenomeno degli hooligans. Dall’essere una realtà prettamente calcistica, i Casuals hanno finito per influenzare intere generazioni, diffondedosi anche in ambito musicale (l’esempio migliore, su tutti, è quello del frontman dei Blur Damon Albarn) e ponendo le basi per lo sviluppo di altre sottoculture, come quella dei Chavs, nati sotto la profonda influenza del fenomeno Casuals.
L’eredità dei Mods
Intorno alla metà degli anni ‘80, il fenomeno dei Mods ricomincia lentamente a dissolversi, lasciando spazio a nuovi stili e generi musicali, senza tuttavia scomparire mai definitivamente. Il look che ha caratterizzato interi decenni è sopravvissuto confluendo in maniera copiosa nel britpop. Ne sono un chiaro esempio gli Oasis e nello specifico i fratelli Gallagher, con il loro tradizionale taglio di capelli molto simile a quello degli early Mods e il frequente utilizzo del parka “a coda di rondine” anche durante i live. Il look mod si ritrova spesso anche nei Blur della prima metà degli anni ‘90, così come in gruppi come Verve, Supergrass, Arctic Monkeys e Ocean Colour Scene o, tra gli artisti più recenti, Miles Kane e Jake Bugg, ultimi riferimenti in ambito musicale di uno stile mai veramente estinto, nemmeno dal punto di vista stilistico. Perché se è vero che i Gallagher hanno contribuito a rafforzare e attualizzare l’immaginario collettivo mod attraverso il mitico parka, anche nel campo della moda sono ancora oggi molti gli esempi che tendono una mano alle sottoculture britanniche di derivazione mod.
Marchi come Stone Island stanno avendo (e hanno avuto) un impatto inaspettatamente positivo sulle subcultures d’oltremanica, riuscendo a entrare a stretto contatto con realtà sociali particolarmente elitarie e identitarie. Stone Island si è inserito a gamba tesa in questo contesto, un po’ per sano spirito imprenditoriale, un po’ per legami particolari e involontari. Rivetti (owner del brand) disse in un’intervista che a contribuire al successo di Stone Island furono un paio di comparse in Tv di Cantona, ignaro testimonial di un marchio simbolo delle sottoculture (su tutte, gli Hooligans e i Casuals, ma anche i non-british “Paninari”) e destinato a diventarne una vera e propria icona. Per tanti motivi, per diverse coincidenze. Ma marchi come quello di Osti, appunto, o CP Company, stanno ereditando tutto questo soprattutto perché consapevoli della loro radice workwear, del loro produrre capi squisitamente pratici e comodi per andarci allo stadio. Vicini quindi in qualche modo alla cultura di strada e perfetti interpreti dello streetwear contemporaneo.