Talent Corner - Intervista ad Alessandro Simonetti
Il fotografo e creative director di U.P.W.W. ci racconta la sua visione sulla moda, le tendenze e la controcultura
05 Giugno 2017
Cresciuto tra il clash culturale della Roma degli anni 80’ e la più conservatrice Bassano del Grappa in Veneto, Alessandro Simonetti spende l'infanzia in un ambiente aperto alle espressioni artistiche che lo porta, a soli sedici anni, ad abbracciare la fotografia. Affascinato dalle dinamiche sociali di quel periodo di mutamento, Alessandro si avvicina alle neo-nate culture di strada italiane militando attivamente come writer fino a metà anni 2000.
Recentemente, oltre ai suoi progetti fotografici, ha iniziato a ricoprire in parallelo il ruolo di creative director per il brand U.P.W.W.
#1 Parlaci di te, come ti sei avvicinato alla fotografia e al mondo della moda?
Faccio parte della seconda generazione di kids italiani che per primi abbracciarono la cultura hip hop e hardcore in Italia, in piena DIY e pre-internet era. Fu all’inizio di quegli anni che cominciai a sviluppare un interesse verso il rappresentare un’ideologia o un'estetica legata a questa scena, attraverso una “divisa” che per me, allora, erano baggie pants e old school sneakers, 80’s sportswear e lettering customized military clothes. Penso che sia stato questo desiderio di appartenenza ad una cerchia di “ribelli” ad aver fatto crescere il mio interesse verso un certo stile di abbigliamento che spaziava dallo stile hip hop, hardcore straight edge, skinhead e mod. Non ho mai avuto una vera fascinazione o una vera cultura sulla moda ma ho sempre guardato con interesse al suo ruolo di generatrice di contenuti e termometro del costume contemporaneo… il mio coinvolgimento nella moda è sempre stato per lo più legato alla fotografia, un’aspetto di una catena molto più ampia.
Nei miei lavori fotografici più personali si può avvertire questa tendenza alla ricerca quasi antropologica, il mio stile fotografico ha radici profonde nel reportage-storytelling. Lo stile come accezione della moda è un elemento costante dei miei soggetti sia che si parli di fetish meetings a Miami, o Japanese Rockabillies nella 14th street, fantini Jamaicani o una dancehall a Kingston. In un’epoca di overlapping e cross over come quella in cui opero, una certa comprensione di queste dinamiche mi permette di espandere il mio field lavorativo ad aspetti più ampi.
#2 Che cos’è U.P.W.W. e qual’è il tuo ruolo nella realizzazione di questo progetto?
U.P.W.W. sta per Utility Pro Work Wear ed è uno spin-off del brand madre Utility Pro, una workwear label nata a New York con quasi due decenni di servizio nel campo del safety apparel e workwear - per intenderci, le pettorine e i raincoats arancioni o giallo fluo dei lavoratori o dei reparti di sicurezza. Nelle vesti di creative director sto accompagnando la transizione ed evoluzione tra il brand madre e U.P.W.W.
Questa opera di ricollocazione, percorre quell'inclinazione europea di licensing di brands workwear americani ma, soprattutto, quell’attitudine che le culture giovanili underground per prime attuarono e che, per una questione generazionale, è parte integrante del mio DNA.
#3 Com’è avvenuto il passaggio dal mondo del workwear a quello dello streetwear?
La collaborazione con Utility Pro è nata in maniera piuttosto casuale: tramite l’attuale designer di U.P.W.W. mi si è presentata la possibilità di poter lavorare ad una licency a stretto contatto con il brand originale condividendo ricerca, materiali e la loro esperienza nella produzione di workwear. In un momento in cui l’high-visibility e il reflective hanno segnato un picco di utilizzo nel fashion, ho pensato fosse un soggetto attorno al quale poter costruire una storia solida e legittima, forte del back-up del brand madre...
Una primitiva forma di workwear hi-vis viene utilizzata negli anni sessanta dai lavoratori delle ferrovie di Glasgow e nei due decenni successivi, attraverso una ricerca quasi alchemica e sperimentale, viene consacrato come safety palette per segnaletica e stampa offset negli Stati Uniti dai fratelli Switzer. Nonostante l’ hi-vis sia un espediente utilizzato da molti brand oggi, il concetto di fluo ritorna ciclicamente sin dagli anni '80 - penso ai pezzi arancioni di Jean Paul Gaultier e le più recenti collezioni di Miu Miu e Moschino con le applicazioni reflective e l’ uso dell’ hi-vis.
#4 Qual’è stato l’aspetto che ti ha maggiormente intrigato di questo progetto?
Direi, il prender parte a quel processo di digestione da parte del fashion e del costume, attraverso il quale sono passati anche anche il camouflage e le divise militari.
Dopo essere state abbracciate come sinonimo di ribellione - per la versatilità e accessibilità - da nicchie culturali quali gli skinhead e i punks inglesi nella metà degli anni 70’, il camouflage e l’aspetto utilitarian delle divise militari, proprio anche del workwear, è un soggetto al quale il fashion attinge da quasi cinque decadi. L’hi-vis è in un certo qual modo un camouflage contemporaneo... Penso alla sub-culture dei graffiti-writers e di come la veste arancione sia usata come espediente per essere scambiato per un lavoratore nella yard o nei tunnels e di mimetizzarsi con quelle figure che di fatto rappresentano sicurezza, ordine e controllo. L’idea quindi, di poter attingere all’aspetto estetico e utilitarian del mondo dell’ hi-vis con tutte le sue accezioni e shifts e poter costruirci attorno un ulteriore strato estetico, è la chiave di lettura di questo progetto che ho presentato a Parigi tramite Slam Jam - realtà con la quale sono sempre stato tangente e con la quale ho collaborato in svariati progetti fotografici prima di spostarmi a New York più di un decennio fa.
#5 UPWW ha debuttato con la FW17 da te scattata quali sono le ispirazioni di questa collezione e in che modo le hai integrate nei tuoi scatti?
La prima collezione FW17 segue gli shapes e i materiali originali della collezione madre e presenta interventi come serigrafie sul retro di bombers , hoodies e raincoats con logo institutional, photo-print su garza applicate, heat-transfer patterns e drippings... un richiamo a quell’estetica DIY nella quale mi sono formato. Ci sono sottili referenze ai Clash e typo-quotes di Un Rastafariano a Kingston. L’ aspetto fotografico è un elemento che parallelamente alle collezioni verrà utilizzato molto, attraverso gli shooting del prodotto ma anche tramite la pubblicazione di soggetti editoriali legati alla fotografia e ai nuovi fresh blooded artists.